martedì 9 gennaio 2018

storia parte 1: le origini

Come parlare di musica che non posso fare ascoltare perché mancano registrazioni dignitose? Potrei approfittarne per rifarla, è vero, ma al momento esula dalla mia disponibilità di tempo.
In cinque anni, dal 1982 al 1987, prima di Moods, ho scritto una sessantina di brani, raccolti in sette cosiddetti album (in pratica audiocassette). Prima di allora anch'io, come è giusto, avevo fatto più o meno maldestri tentativi cantautorali adolescenziali (spicca tra tutte una commovente lirica sull'Italia Campione del Mondo), addirittura prima di saper suonare, e molte le ricordo ancora perfettamente anche se non le ho mai registrate. 
Quando più tardi (ed è un "più tardi" della giovinezza, quando un mese vale almeno un anno) cominciai a voler lasciare qualche traccia compiuta, la mia visione era diventata un'altra, e più ambiziosa: sognavo di scrivere opere rock, suite metafisiche, saghe epiche e magniloquenti, concept album di portata letteraria, a prescindere dalla possibilità tecnica di realizzarli. Molte di queste idee hanno comunque formato l'humus per i lavori successivi, e aiutano a capire il resto. 
Per prima cosa ci furono due esperimenti, inascoltabili ma molto significativi di come intendessi differenziarmi dal cliché di chi suonava la chitarra per animare i falò o le gite parrocchiali e componeva versi per attirare le ragazze. Il primo esperimento di confezionamento di un "album", con un concetto e addirittura una propria copertina, si chiamava Exilium. Un instant-tape un po' kitsch, in cui assemblai rumori ambientali, musiche scritte in due pomeriggi e altre che mi ronzavano in testa da tempo, intorno a un filo conduttore psichedelico-spaziale: i pensieri di una giornata, o il dormiveglia (ah, Joyce!) di un prigioniero in esilio su un altro pianeta che ha nostalgia della Terra.
La musica vorrebbe dare un'idea di desolazione totale, di solitudine cosmica, Radio tuning è una ricerca di suoni sulle onde lunghe, Tom turns off and tries to relax è una composizione di rumori stile “Ummagumma” o "Alan's psychedelic breakfast".
All'origine di tutto questo c'era la povertà dei suoni che avevo a disposizione (un organo Farfisa), per cui compensavo con la creatività la mancanza di tecnica e di strumenti. Il 90% è lasciato all'immaginazione, in una sorta di gestalt musicale.
La cosa curiosa è che, non padroneggiando ancora il pentagramma, scrivevo il nome delle note ad una ad una su un quaderno. Non ragionavo ad accordi, il che se da un lato era un limite enorme, dall'altro mi lasciava un'enorme libertà compositiva, che a volte invidio, perché più si diventa consapevoli delle regole dell'armonia più è difficile uscire dai binari e seguire l'istinto; si sentono chiaramente, nonostante l'ovvia ingenuità, precise intuizioni di un linguaggio più colto, non vincolato dagli schemi pop, come l'idea della ripresa di temi.
Il secondo progetto di album, mai completato, si chiamava Chronicle of old medieval legends, frutto di un fascino per il medioevo forse conseguenza degli studi, de “Il nome della rosa”, della moda di Tolkien e dei giochi di ruolo, delle copertine progressive, suggestioni letterarie che sono tornate più volte in tanti inediti successivi, come testimoniano i titoli: Flowers for Jeannette (una storia alla Emily Bronte)Windows on the storm ("Dicono che il vecchio non abbia occhi per vedere, ma può sentire, era il guardiano della torre in cui lei viveva libera") Burst out in physics lab  (una storia gotica alla Stevenson) The fall of Lucyfer (un richiamo a Milton!). Solo una cosa, forse, si salva, ed è una bellissima versione cantata della ballata classica Bonnie George Campbell.
Quando subito dopo comincio a comporre ciò che definisco, anche con un po' di ironia, “candide canzoncine pop”, ci arrivo veramente in senso dialettico. E' stato come disegnare a matita dopo aver imparato a fare affreschi: fare cose semplici, ma con la consapevolezza di un più grande respiro.