venerdì 13 dicembre 2019

un fucile caricato a parole

quando riempio la ventiquattr'ore
e scelgo quali sogni portare
e carico il mio aereo a pedali
e un fucile caricato a parole
[...]
ho deciso da che parte mi schiero
(Da che parte mi schiero)

Oggi lavoriamo sulla parola "impegno". Io ho potuto assistere a fasi musicali diversissime, compresi periodi in cui il valore dei testi era ritenuto più importante di quello della musica, in cui tra compagni di scuola si parlava di poesia, in cui ci si trovava in una cantina a parlare di un album. E ho anche vissuto varie ondate della musica cosiddetta di impegno, addirittura momenti in cui veniva stigmatizzato chi non si dichiarava impegnato, situazione che oggi appare totalmente anacronistica.
Evidentemente si tratta di categorie che perdono di senso nel momento in cui hai una platea ridotta come la mia. Le mie canzoni non potrebbero mai cambiare il mondo, e sarebbe assurdo che me ne ponessi l'obiettivo, possono solo raccontare la mia idea di mondo; e, fatta eccezione dei pochi esempi di espliciti temi sociali, tra le righe di quello che ho fatto non ho mai nascosto "da che parte mi schiero".
Tuttavia sono convinto che nel mestiere di fare musica l'impegno si trovi soprattutto nel lavoro poetico, narrativo, estetico, nella ricerca della bellezza.
Certamente una canzone può definirsi impegnata se svela verità scomode o se dà voce a chi non ne ha, ma già il pensiero di invitare alla riflessione o alla fruizione della bellezza, in un momento storico di banalizzazione della comunicazione, sovraddosaggio di immagini e volgarizzazione delle interazioni sociali, si può considerare impegno. L'arte può elevare lo spirito, educare all'apertura e alla tolleranza, allenare il senso critico, il confronto, la discussione. “Credo nel potere del riso e delle lacrime”, come diceva Chaplin, e aggiungo della musica, “come antidoto per l’odio e per la violenza”.

lunedì 28 gennaio 2019

L'importanza di chiamarsi ...

Probabilmente ha destato più di una curiosità il nome che ho usato per anni per firmare la mia musica, "H45". Un musicista singolo che si nasconde dietro il finto nome di un gruppo oggi è una prassi molto diffusa, ma non allora, per me era solo un gioco. Mi attiravano i gruppi rock identificati da sigle o lettere e numeri, e mi scelsi uno pseudonimo poco didascalico, che suonava bene in inglese e che potesse sollecitare domande, ma paradossalmente non avevo pronta nessuna risposta, perché non nascondeva alcun significato. Poi, come tante cose provvisorie, è rimasto per sempre,
Solo quando ho cominciato ad avere un po' più di visibilità, ho progressivamente introdotto prima le mie iniziali (quasi subliminali, evidenziate nel titolo in eserCizi sPirituali) poi il mio vero nome, che è come metterci la faccia. Usare uno pseudonimo è in fondo dar vita a un personaggio inventato, ma ha i suoi vantaggi, rende meno facile l'identificazione e permette di rendere più anonima, e quindi più universale, la mia musica.